Diritti reali e personali

Il danno esistenziale va provato

Anche il danno esistenziale va provato.
Corte di Cassazione – Sentenza 17 maggio – 4 ottobre 2005  – R.G.N.19354/2005 

Cassazione – Sezione Prima Civile

Sentenza 17 maggio – 4 ottobre 2005

R.G.N.19354/2005

Oggetto.

Procedimento di divorzio – Mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo – Equa riparazione del danno, patrimoniale, non patrimoniale ed esistenziale – Onere probatorio
     
Sentenza.

Presidente Morelli, Relatore Giuliani

Ritenuto in fatto

Con ricorso depositato il 25.6.2002, *** *** chiedeva che la Corte di Appello di Milano, previo accertamento della violazione dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali (d’ora in avanti, per brevita’, denominata semplicemente Convenzione europea), sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo, disponesse la condanna del Ministero della Giustizia al pagamento di quanto dovutogli a titolo di equa riparazione del danno, patrimoniale, non patrimoniale ed esistenziale, subito in conseguenza della durata appunto della causa civile che, da lui instaurata davanti al Tribunale di Torino con ricorso notificato il 14.7.1997, avente per oggetto la pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto il 31.8.1986 con *** *** *** ***, era stata decisa da detto Giudice con sentenza definitiva del 18.7/26.11.2001.

Si costituiva in giudizio l’Amministrazione convenuta, resistendo alla pretesa avversaria.

Il Giudice adito, con decreto emesso in data 27.9/11.10.2002, condannava la predetta Amministrazione al pagamento della somma di euro 3.000,00, a titolo di ristoro del danno non patrimoniale conseguente alla non ragionevole durata del procedimento di divorzio sopra indicato, rigettando ogni diversa domanda di danni e segnatamente assumendo:

a) che tra la data della notificazione del ricorso e quella della decisione fossero trascorsi piu’ di quattro anni, laddove la durata ragionevole della causa, di pronta ed agevole definizione trattandosi di divorzio “consensuale” siccome relativo alla sola pronuncia di “stato”, con esclusione delle questioni di ordine patrimoniale, doveva essere stimata pari ad un anno e due mesi;

b) che fosse da liquidare al ***, a titolo di ristoro, in via equitativa, del danno non patrimoniale, la somma di euro 1.000,00 per ciascuno dei tre anni eccedenti la ragionevole durata di cui sopra;

c) che il cd. danno esistenziale non costituisse un autonomo titolo di danno, rientrando in quello biologico, indimostrato;

d) che l’inopinato caducarsi del novello progetto matrimoniale del ***, in conseguenza della eccessiva durata della procedura di divorzio, non apparisse suffragato da alcuna prova.

Avverso tale decreto, ricorre per Cassazione il medesimo ***, deducendo due motivi di gravame ai quali resiste con controricorso il Ministero della Giustizia.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di impugnazione, lamenta il ricorrente omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., assumendo:

a) che non puo’ non definirsi erronea la motivazione dell’impugnato decreto la’ dove, apoditticamente, si afferma che il danno esistenziale rientri de plano in quello biologico, omettendosi qualsivoglia ulteriore considerazione in ordine alla configurabilita’ e sussistenza, nella specie, di una diversa figura di danno, connessa agli effetti pregiudizievoli determinatisi nella vita di relazione del ricorrente ed, in particolare, relativi alla di lui possibilita’ di ricostituirsi un nucleo familiare legittimo;

b) che, nel caso in esame, l’irragionevole durata della procedura intesa ad ottenere la caducazione degli effetti civili del precedente matrimonio ha determinato l’impossibilita’ per il *** di contrarre un nuovo vincolo coniugale, per cio’ solo gravemente compromettendo un suo diritto fondamentale;

c) che, a tal fine, il ricorrente ha altresi’ fornito prova certa e concreta delle proprie allegazioni attraverso la dichiarazione sostitutiva di notorieta’ di *** *** in data 22.5.2002, dalla quale si evince come la consolidata relazione intrapresa con il ricorrente sin dal 1996 fosse stata dalla medesima dichiarante interrotta a seguito dell’ulteriore rinvio della procedura di divorzio, comunicatole nell’estate del 2000;

d) che, del resto, nessuna prova diversa da quella fornita avrebbe potuto dare il ricorrente stesso, secondo le regole processuali applicabili, laddove la libera valutazione, da parte del giudice, della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorieta’ deve in concreto ammettersi in quei particolari casi nei quali, come nella specie, tale dichiarazione venga resa non da una parte ma da un terzo.

Con il secondo motivo di impugnazione, del cui esame congiunto con il precedente si palesa l’opportunita’ involgendo ambedue la trattazione di questioni strettamente connesse, lamenta il ricorrente violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., assumendo:

a) che la Corte territoriale ha ritenuto la sussistenza di carenza probatoria in ordine alle difese svolte dal medesimo ricorrente per non avere quest’ultimo richiesto l’audizione, in qualita’ di teste, della sopra nominata ***;

b) che il tenore letterale dell’art. 3, comma quinto, della legge n. 89 del 2001 persuade del fatto che la norma, elencando e descrivendo in modo dettagliato quelle che sono le facolta’ istruttorie riconosciute alle parti, ha inteso escludere in capo ad esse la possibilita’ di dedurre prove testimoniali e, conseguentemente, di richiederne la relativa assunzione.

I due motivi non sono fondati.

Giova, al riguardo, premettere come la figura del danno “esistenziale” sia stata elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, anche di questa Corte (Cass. 7 giugno 2000, n. 7713 e Cass. 10 maggio 2001, n. 6507, la’ dove, con riguardo alla tutela di pregiudizi non patrimoniali conseguenti alla lesione di diritti fondamentali della persona, diversi dalla salute, collocati al vertice della gerarchia dei valori costituzionalmente garantiti e la cui violazione non puo’ rimanere senza “la minima delle sanzioni – risarcimento del danno – che l’ordinamento appresta per la tutela di un interesse”, si e’ fatto riferimento ad una categoria di danno, appunto “esistenziale od alla vita di relazione”, capace di ostacolare “le attivita’ realizzatrici della persona umana”), per sopperire alle lacune, riscontrate in tema di protezione civilistica degli attributi e dei valori della persona medesima, connesse all’impossibilita’ di giovarsi dell’art. 185 c.p. (e di liquidare percio’ il relativo danno morale) quante volte non risultasse concretizzata una fattispecie di reato, mentre, nella materia de qua, poiche’ il legislatore e’ intervenuto enunciando espressamente la possibilita’ di riconoscere il danno “non patrimoniale” al di fuori dai limiti posti dall’art. 2059 c.c. (art. 2, primo comma, della legge n. 89 del 2001), appare evidente come il pregiudizio esistenziale costituisca una “voce” del danno indicato da ultimo (Cass. 5 novembre 2002, n. 15449), conformemente, del resto, a quanto riconosciuto, in via di principio, da questa stessa Corte, la’ dove figura affermato che, nel vigente assetto dell’ordinamento, in cui assume posizione preminente la Costituzione, che, all’art. 2, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi di ingiusta lesione di un valore inerente alla persona umana, costituzionalmente protetto, dalla quale conseguano pregiudizi non suscettibili di valutazione economica, onde esso non si identifica e non si esaurisce nel danno morale soggettivo, costituito dalla sofferenza contingente e dal turbamento transeunte dell’animo (Cass. 31 maggio 2003, n. 8827 e n. 8828; Cass. 18 novembre 2003, n. 17429; Cass. 12 dicembre 2003, n. 19057; Cass. 15 gennaio 2005, n. 729), ovvero, con specifico riguardo al tema dell’equa riparazione ai sensi della legge n. 89 del 2001, dagli stati d’ansia, dal patimento e dal disagio interiore connessi al protrarsi nel tempo dell’attesa di una decisione vertente su un bene della vita reclamato dal soggetto interessato, ma comprende altresi’ il pregiudizio che dalla durata irragionevole dell’attesa di giustizia si riflette sulla vita di relazione del medesimo soggetto (Cass. 17 aprile 2003, n. 6168).

In questi termini, l’assunto della Corte territoriale, la quale, dopo aver reputato “innegabile” il danno non patrimoniale connesso al ritardo nell’emanazione di un provvedimento relativo allo “stato della persona” ed avere, percio’, liquidato al ***, in via equitativa, la somma di euro 1.000,00 per ciascuno dei tre anni oltre l’anno e mesi due stimato come il tempo di ragionevole durata del procedimento in esame, ha quindi affermato che “Il cd. danno esistenziale non costituisce…un autonomo titolo di danno”, non soggiace di per se’ a censura, indipendentemente, poi, tenuto conto della palese ininfluenza della circostanza in questa sede, dal fatto che la stessa Corte abbia ricondotto tale danno nell’ambito di quello “biologico” ed abbia ritenuto quest’ultimo, nella specie, “indimostrato”.

Peraltro, poiche’ la richiamata sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte n. 1338 del 2004, malgrado abbia compiuto una semplificazione degli oneri probatori, ha tuttavia espressamente riferito il danno non patrimoniale, il quale non puo’ essere negato alla persona che ha visto violato il proprio diritto alla durata ragionevole del processo, all’afflizione causata dall’esorbitante attesa della decisione, ovvero al patema d’animo, all’ansia ed alla sofferenza morale che non occorre dimostrare, sia pure attraverso elementi presuntivi, trattandosi di conseguenze (non patrimoniali appunto) che possono reputarsi presenti secondo l’id quod plerumque accidit ed essendo normale che l’anomala lunghezza di un processo le produca in capo alla parte che vi e’ coinvolta, laddove, del resto, il danno cd. “esistenziale”, concretandosi in una modificazione dell’agire del singolo, e’ agevolmente accertabile altresi’ in via oggettiva, ovvero sulla base di indici piu’ sicuri (si pensi al cambiamento dei propri usi di vita sociale, delle proprie scelte abituali e cosi’ via) di quelli che suggeriscono l’esistenza di un danno morale soggettivo, del tutto correttamente il Giudice di merito ha ritenuto che “L’inopinato caducarsi del novello progetto matrimoniale del *** in conseguenza della eccessiva durata della procedura di divorzio non appare suffragato da alcuna prova seria, tale non potendosi considerare la dichiarazione di certa *** *** in data 22 maggio 2002 (costei avrebbe deciso di troncare la relazione sentimentale instaurata con il *** allorche’, nell’estate del 2000, le fu comunicato l’ulteriore rinvio della causa di divorzio)”, senza che, d’altra parte, si verta nell’ambito dell’art. 76 del D.P.R. n. 445 del 2000 e che la predetta *** sia stata indicata quale teste sulle circostanze contenute nella dichiarazione stessa.

A tale riguardo, infatti, conviene notare:

a) che alla dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorieta’ posta in essere da un terzo estraneo alla lite deve attribuirsi la stessa rilevanza assegnata alla scrittura proveniente da un terzo appunto (Cass. 7 agosto 2004, n. 15306), onde tale dichiarazione, non configurandosi come prova tipica, non riveste la piena efficacia delle prove documentali e puo’ costituire semplicemente un indizio suscettibile di integrare il fondamento della decisione in concorso con altre risultanze istruttorie delle quali occorre valutare la rilevanza, restando cosi’ rimessa al prudente apprezzamento, insindacabile in sede di legittimita’ se adeguatamente motivato, del giudice di merito (Cass. 14 agosto 2001, n. 11105; Cass. 3 agosto 2002, n. 11652; Cass. 27 luglio 2004, n. 14122), il quale, quindi, nella specie, del tutto correttamente non ha considerato ” la dichiarazione di certa *** *** in data 22 maggio 2002″, di per se’ sola, come una “prova seria”;

b) che, del resto, parimenti incensurabile si palesa il rilievo della Corte territoriale in ordine alla circostanza che “la predetta *** (non) e’ stata indicata quale teste sulle circostanze contenute nella dichiarazione stessa”, atteso che la formulazione dell’art. 3, quinto comma, della legge n. 89 del 2001 non esclude che i mezzi di prova attraverso i quali ricostruire i fatti rilevanti ai fini del decidere siano, e restino, quelli “tipici” di ogni procedimento il quale, come accade in materia di equa riparazione, pur articolandosi nelle forme della Camera di consiglio; (art. 3, quarto comma, della gia’ citata legge n. 89/001), non realizzi un’espressione di giurisdizione volontaria (cosi’ da rendere possibile al giudice di assumere informazioni sui fatti in modo tendenzialmente libero e di ricorrere a mezzi di prova anche “atipici”), ma abbia per oggetto un conflitto di posizioni tra le parti applicato a diritti soggettivi, ovvero costituisca l’espediente normativo per dare vita ad una forma processuale semplificata ed alternativa rispetto a quella ordinaria, ma volta a finalita’ di accertamento e/o di condanna che sono analoghe od identiche, onde dal catalogo delineato dagli artt. 2699 e seguenti c.c. e dagli artt. 191 e seguenti c.p.c., ivi comprendendo, quindi, altresi’ la prova testimoniale, le parti e la corte di appello (quest’ultima nell’esercizio dei suoi poteri ufficiosi) possono attingere senza limitazioni particolari, tanto piu’ in un caso, come quello di specie, in cui le norme sul procedimento di equa riparazione, contenute nel richiamato art. 3 della legge n. 89/2001, non recano alcuna esplicita disposizione in contrario.

Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.

La sorte delle spese del giudizio di Cassazione segue il dettato dell’art. 385, primo comma, c.p.c., liquidandosi tali spese in euro 1.500,00 per onorario, oltre le spese prenotate a debito.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso in favore del controricorrente delle spese del giudizio di Cassazione, liquidate in euro 1.500,00 per onorario, oltre le spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 17 maggio 2005.

Depositato in Cancelleria il 4 ottobre 2005.