Nel processo tributario e’ possibile produrre nuove prove documentali anche in appello in via eccezionale rispetto a quanto previsto dal codice di procedura civile.
Sentenza annotata. Cass., Sez. trib., 17 ottobre 2005 n. 20086
Svolgimento dei processo
1. Il 17 dicembre 2002 e’ notificato al Ministero dell’economia delle finanze un ricorso delle signore A. De C., L.M. e F.M. per la cassazione della sentenza sopra descritta, che ha accolto l’appello dell’Ufficio del registro di Napoli contro la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Napoli n. 128/21/00, che aveva accolto il loro ricorso contro un avviso di liquidazione dell’imposta di successione. 2.1 fatti di causa sono i seguenti:
a) il 7 ottobre 1992 l’Ufficio del registro di Napoli notifica l’avviso di liquidazione delle imposte dovute in dipendenza di un avviso di accertamento di valore emesso dallo stesso Ufficio in relazione ai beni caduti in successione del signor R. Di C.; b) il ricorso delle contribuenti alla Commissione tributaria di primo grado e’ accolto, perche’ non risulta resistenza dell’avviso di accertamento presupposto dell’avviso di liquidazione; c) l’appello dell’Ufficio e’, invece, accolto dalla Commissione tributaria regionale con la sentenza ora impugnata per cassazione.
3. La sentenza, d’appello, oggetto del ricorso per cassazione, e’ cosi’ motivata:
a)l’Ufficio del registro di Napoli ha allegato all’atto di appello documenti, tardivamente prodotti nel giudizio di primo grado, relativi all’avviso di accertamento di valore e alla sua notifica eseguita per ciascuna delle contribuenti; b) le appellate, con l’atto di costituzione, non hanno minimamente contestato la circostanza dell’avvenuta notifica dell’avviso di accertamento, essendosi limitate a far riferimento agli artt. 72 e 32 Dlgs. 31 dicembre 1992, n. 546, che si riferiscono ai termini per il deposito di documenti e che, disattesi dall’Ufficio in primo grado, sono stati, invece, rispettati in appello; c) poiche’ e’ stata fornita la prova della definitivita’ dell’avviso di accertamento in mancanza di opposizione, l’avviso di liquidazione e’ valido ed efficace.
4. Il ricorso delle contribuenti e’ sostenuto con due motivi d’impugnazione e si conclude con la richiesta di cassazione della sentenza impugnata e di riconoscimento della vittoria in tema di spese processuali.
5. Il Ministero dell’economia e delle finanze resiste con controricorso, a conclusione del quale si chiede il rigetto del ricorso e l’adozione di ogni conseguenziale provvedimento, anche in ordine alle spese processuali.
Motivi della decisione
6.1 Con il primo motivo d’impugnazione le ricorrenti denunciano la violazione dell’art. 72.1 D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546. 6.2. Esse sostengono, in proposito, che i documenti giustificativi dell’emissione dell’avviso di liquidazione impugnato sarebbero stati prodotti solo in secondo grado in allegazione all’atto di impugnazione. Cio’ contrasterebbe con il principio, secondo il quale l’Ufficio nel processo tributario e’ attore, con la conseguenza che esso dovrebbe provare le ragioni della sua pretesa di 20 giorni anteriore all’udienza di trattazione del ricorso in primo grado, al fine di consentire alla ricorrente formale di esaminarli e eventualmente di controdedurre. Nel caso in esame l’Ufficio non avrebbe esibito i presupposti dell’avviso di liquidazione neanche dopo l’ordinanza del 24 gennaio 2000, concessagli benevolmente ed irritualmente dai primi giudici, che non hanno potuto far altro che dichiararne la decadenza e decidere in base a quanto depositato nei termini di legge. 7.1. Col secondo motivo d’impugnazione le ricorrenti denunciano la violazione dell’art. 58.1 D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546. 7.2. Le ricorrenti sostengono, al riguardo, che la sentenza impugnata sarebbe illegittima anche perche’ sarebbe stato consentito all’ufficio di produrre documenti anche dopo che esso era incorso nella decadenza dalla prova. 8. Poiche’ le due censure propongono la medesima questione di diritto, consistente nel domandare se sia ammissibile la produzione in appello, da parte dell’ufficio tributario, di documenti tardivamente depositati in primo grado, essi possono essere esaminati congiuntamente. 9. Le disposizioni normative dalle quali potrebbe trarsi la norma regolatrice della produzione dei documenti nel processo tributario sono le seguenti:
a) l’art. 32.1 D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, secondo il quale, con riguardo al giudizio tributario di primo grado, “Le parti possono depositare documenti fino a venti giorni liberi prima della data di trattazione…”; b) l’art. 58.2 D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, per il quale, con riferimento al grado di appello, “Il giudice non puo’ disporre nuove prove, salvo che non le ritenga necessarie ai fini della decisione o che la parte dimostri di non averle potute fornire nel precedente grado di giudizio per causa ad essa non imputabile”; c) l’art. 58.1 D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, secondo cui, sempre in appello, “E’ fatta salva la facolta’ delle parti di produrre nuovi documenti”; d) l’art. 1.2 D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in virtu’ del quale “I giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile”; e) l’art. 345.3.1 cpc, per il quale “Non sono ammessi nuovi mezzi di prova, salvo che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile”.
Dal confronto tra l’art. 58 D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, e l’art. 345.3.1 cpc emerge immediatamente che per il processo tributario il regime delle prove in appello e’ modellato su quello del processo civile, con l’unica eccezione, fondata sull’art. 1.2 D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, delle prove documentali, per le quali non opera il divieto della novita’ ex art. 58.1 D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546. In tal senso si e’ gia’ pronunciata questa Corte con le sentenze: sentenza 13 maggio 2003, n. 7329, secondo la quale, quanto alla salvezza della facolta’ delle parti di produrre nuovi documenti in appello ex artt. 58.2 D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, “la Commissione regionale tributaria non puo’ rifiutarne l’esame con l’argomento che i documenti non sarebbero stati prodotti ritualmente in primo grado”; sentenza 11 febbraio 2003, n. 2027, che ha affermato che l’art. 58,2 “fa salva la facolta’ delle parti di produrre in appello nuovi documenti indipendentemente dalla impossibilita’ dell’interessato di produrli in prima istanza, per causa a lui non imputabile (requisito, quest’ultimo, richiesto dall’art. 345 c.p.c., ultimo comma, come sostituito dall’art. 52 della legge n. 353 del 1990), ma non dal citato art. 58, con la conseguenza che costituisce erronea applicazione della norma in parola l’affermazione secondo cui la produzione documentale nel giudizio d’appello risulta illegittima ove non sia stata provata l’impossibilita’ incolpevole di versarla agli atti del giudizio di primo grado”, sentenza 24 maggio 2002, n. 7602; sentenza 21 luglio 2000, n. 9604. Ne deriva che correttamente la Commissione tributaria regionale di Napoli ha ammesso l’Ufficio al deposito di nuovi documenti in appello e che e’, percio’, infondato il ricorso delle ricorrenti. 10. Sussistono giusti motivi perche’ le spese processuali relative al giudizio di cassazione siano compensate tra le parti.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese processuali relative al giudizio di cassazione.
Sommario: Premessa ? 2. La prova documentale ? 3. Il divieto delle prove nuove in appello ? 4. Il regime delle prove nell?appello tributario
1. Premessa L?ammissibilità di nuove prove documentali nel secondo grado del giudizio tributario ha trovato, una volta ancora, l?autorevole avallo della Corte di Cassazione che, con la pronuncia in rassegna, ha rigettato il gravame proposto dalle contribuenti le quali chiedevano l?annullamento della sentenza n. 65/52/02, emessa dalla Commissione Tributaria Regionale della Campania il 20 marzo 2002 e depositata il 2 aprile dello stesso anno, lamentando, con duplice motivo di ricorso, la violazione degli artt. 72, comma 1, e 58, comma 2, del D.Lgs. n. 546/92. I giudici partenopei avevano infatti accolto l?appello proposto dall?Ufficio del registro di Napoli avverso la sentenza n.128/21/00 della Commissione Tributaria Provinciale di Napoli ? la quale aveva dichiarato l?annullamento dell?avviso di liquidazione di imposte dovute in dipendenza di un accertamento di maggior valore di beni caduti in successione – ritenendo che il deposito di documenti che attestavano la definitività dell?avviso di accertamento, pur occorso solo in grado d?appello, conferiva piena validità ed efficacia al successivo avviso di liquidazione. La Suprema Corte, dopo aver svolto una rapida ricognizione delle norme regolatrici della produzione probatoria sia nel rito tributario che nel processo civile e dopo aver richiamato proprie conformi pronunce rese nel corso degli anni precedenti, ha limpidamente affermato che nel processo tributario è fatta ?salva la facoltà delle parti di produrre in appello nuovi documenti indipendentemente dall?impossibilità dell?interessato di produrli in prima istanza per causa a lui non imputabile? ed ha conseguentemente confermato, giacché corretta, la sentenza della Commissione di merito. 2. La prova documentale La nozione di prova documentale ricomprende ogni mezzo di prova costituito da oggetti materiali idonei a rappresentare o a dare conoscenza di un fatto Il Codice Civile distingue due tipi di prova documentale: l?atto pubblico e la scrittura privata. L?atto pubblico, secondo la definizione recata dall?art. 2699, ?è il documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l’atto è formato.? Sono anche atti pubblici, tra gli altri, gli atti della pubblica amministrazione, i verbali delle assemblee ed i documenti relativi alle operazioni doganali. A mente del successivo art. 2700 l?atto pubblico fa piena prova degli elementi intrinseci che ne individuano la formazione (la provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, le circostanze di tempo e di luogo in cui è stato redatto), della riferibilità delle dichiarazioni alle parti che le hanno rese[1] e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti. L?impugnazione dell?atto pubblico da parte di chi voglia ottenerne il disconoscimento deve essere proposta mediante querela di falso (artt. 221 e ss. del codice di procedura civile), che è un?istanza diretta ad ottenerne dal giudice adito una declaratoria di falsità. La scrittura privata, alla cui disciplina provvedono gli artt. 2702 e ss. del cod. civ., consiste in qualunque documento che non proviene da un pubblico ufficiale ma è sottoscritto dalla parte e, come l?atto pubblico, fa piena prova, fino a querela di falso della provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta, se colui contro il quale la scrittura è prodotta ne riconosce la sottoscrizione, ovvero se questa e legalmente considerata come riconosciuta[2] Si ha per riconosciuta la sottoscrizione autenticata dal notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato in quanto questi attesta che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza previo accertamento dell’identità del sottoscrittore (art. 2703 c.c.). Anche il telegramma ha efficacia probatoria analoga a quella della scrittura privata se, come recita l?art. 2705, l’originale consegnato all’ufficio di partenza è sottoscritto dal mittente, ovvero se è stato consegnato o fatto consegnare dal mittente medesimo, anche senza sottoscriverlo. Altri documenti dotati di analoga forza probatoria, superabile solo mediante la proposizione di querela di falso, sono le carte ed i registri domestici (art. 2707), che fanno prova contro chi li ha scritti quando enunciano espressamente un pagamento ricevuto ovvero quando contengono la menzione espressa che l’annotazione è stata fatta per supplire alla mancanza di titolo in favore di chi è indicato come creditore, e i documenti rimasti in possesso del creditore che recano, in calce, a margine o a tergo, annotazioni apposte dallo stesso e tendenti ad accertare la liberazione del debitore (art. 2708). 3. Il divieto di prove nuove in appello Nel processo civile lo ius novorum è espressamente vietato dall?art. 345, commi 1 e 2, del codice di procedura civile, per il quale nel giudizio di appello non possono proporsi nuove domande ed eccezioni, salvo il caso che queste ultime siano rilevabili anche d?ufficio. Il divieto di nuovi mezzi di prova è invece previsto nel terzo comma del medesimo art. 345 e si riferisce alle prove non dedotte nel corso del primo grado del giudizio senza tuttavia che la preclusione debba intendersi estesa alle prove che, ritualmente avanzate in primo grado, non siano state ammesse dal giudice; in tale ultima ipotesi, anzi, l?eventuale diniego opposto dal giudice di appello all?ingresso nel giudizio di tali elementi negletti in primo grado, costituisce, se operato invocando appunto il divieto di cui al comma 3, motivo di ricorso per cassazione per violazione e falsa applicazione dello stesso art. 345. La norma procedurale, com?è noto, ha comunque temperato il divieto ammettendo, al terzo comma, l?ingresso di nuove prove in secondo grado laddove il giudice le ritenga insostituibili per addivenire ad una decisione della controversia, ovvero allorché la parte dimostri di non aver potuto produrle nel precedente grado di giudizio per causa ad essa non imputabile. Con questa norma, novellata ad opera dell?art. 52 della legge 26 novembre 1990, n. 353, il legislatore della riforma processualcivilistica ha voluto qualificare il giudizio civile di secondo grado come revisio prioris instantiae rinnegando la natura di novum iudicium propria del gravame ante riforma[3]. Peraltro non è mancato chi[4], osservando con spirito critico il divieto dei nova introdotto dalla riforma, ha ritenuto sostanzialmente superflua la precisazione contenuta nel terzo comma dell?art. 345 ? che, come detto, subordina l?ammissibilità dei nuovi mezzi di prova alla dimostrazione, che grava sulla parte che intende avvalersene, di non averli potuti produrre in prima istanza per causa incolpevole ? giacchè, di fatto, avente effetto meramente applicativo dell?istituto della remissione in termini contenuto nell?art. 184-bis del medesimo codice di rito. La dottrina, ed anche la giurisprudenza come si vedrà tra un momento, si è peraltro divisa in ordine alla corretta interpretazione da annettere al divieto contenuto nel terzo comma dell?art. 345 e mentre l?opinione preponderante, muovendo dall?esegesi del testo normativo che fa riferimento ai ?mezzi di prova? e valorizzando in chiave interpretativa le indicazioni ricavabili dai lavori preparatori e gli orientamenti emersi dalla giurisprudenza giuslavoristica in tema di interpretazione dell?art.437 c.p.c.[5][6], si è schierata in favore della tesi che tale norma non vieti la produzione di nuovi documenti in appello, riferendosi solamente alle prove c.d. ?costituende?, e cioè alle prove che si devono formare nel processo, come risultato dell?attività istruttoria a seguito di una istanza di parte e di successivo provvedimento di ammissione del giudice, e non anche alle prove c.d. ?costituite?, quali sono le produzioni documentali formatesi fuori , e di solito prima, del processo, altri ritiene che il divieto si applichi a tutti gli elementi utili per acquisire la cognizione dei fatti ai fini della decisione dedotti per la prima volta in appello e con riferimento ai quali non sussista una delle ipotesi di deroga prevista dalla stessa norma. Anche la posizione assunta dalla giurisprudenza della Suprema Corte ha risentito, inevitabilmente, di tale difformità interpretativa ed infatti i Sommi giudici, che già con una risalente pronuncia del 1995, la n. 8927, avevano escluso che i nuovi documenti ricadessero nella fattispecie ostativa, riferita alle sole prove costituende, con la sentenza n. 13670 del 13 ottobre 2000, hanno affermato che ?L’art. 345, comma 3, c.p.c., nella nuova formulazione di cui all’art. 52 l. 26 novembre 1990 n. 353 – applicabile ai giudizi promossi in epoca successiva al 29 aprile 1995, ex art. 90 della legge n. 353 del 1990, come sostituito, da ultimo, con d.l. n. 121 del 1995, più volte reiterato fino alla conversione in legge n. 534 del 1995 – non vieta la produzione di nuovi documenti in appello. Non casualmente, infatti, come si evince dai lavori preparatori della citata legge n. 353 del 1990, la norma stabilisce solo che non sono in via generale ammessi “nuovi mezzi di prova”, mentre non si riferisce alle prove cosiddette precostituite, quali i documenti?, con ciò aderendo in pieno all?interpretazione più libera, fatta propria anche con la successiva pronuncia n. 7511 resa il 4 giugno 2001, per la quale “I mezzi di prova, che non sono nuovi e che, pertanto, possono essere ammessi in appello, quando siano costituiti da documenti, soggiacciono alla regola, contenuta nell’art. 87 delle disposizioni di attuazione del c.p.c., applicabile anche al giudizio di appello per il richiamo contenuto nell’art. 359 dello stesso codice, il quale descrive i modi della produzione dei documenti dopo la costituzione delle parti in giudizio. Essi sono acquisiti al processo, se prodotti mediante deposito in cancelleria oppure in udienza mediante la menzione dell’avvenuta produzione nel corrispondente verbale. La produzione dei documenti all’udienza, nei modi descritti, ne consente l’esame all’altra parte, che può replicare sulla loro efficacia nel processo. La produzione non può avvenire, invece, all’udienza collegiale, la quale è destinata alla relazione orale della causa da parte del giudice istruttore e alla discussione delle parti che l’abbiano chiesta ex art. 275 del codice di procedura civile”. Di tutt?altro tenore è invece la sentenza n. 5133 del 6 aprile 2001 che afferma ?In tema di ius novorum in grado di appello, deve ritenersi legittimo, da parte del giudice di secondo grado, l’esame di documenti nuovi allorché ciò sia indispensabile ai fini del decidere – sì come richiesto dal comma 2 dell’art. 345 c.p.c. a proposito delle prove nuove – ed allorché la mancata produzione, in primo grado, dei documenti stessi non sia imputabile alla parte che intende avvalersene? ed avalla l?orientamento più rigoroso peraltro già implicitamente alimentato anche dalla sentenza n. 9604, pronunciata il 21 luglio 2000 dalla sezione tributaria della stessa Corte, la quale, in ordine alla specialità del rito tributario, così si era espressa: ?L’art. 58, comma 2, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 fa salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti. Il documento deve ritenersi nuovo quando viene per la prima volta prodotto in grado di appello o allorché la produzione nel giudizio di I grado debba ritenersi per qualunque ragione irritale; ciò indipendentemente dalla impossibilità della parte di produrlo in I grado per causa ad essa non imputabile, requisito richiesto dall’art. 345, ultimo comma, c.p.c. ?.. ma non dal citato art. 58, comma 2. Invero la restrizione alla possibilità di produrre nuovi documenti in appello subisce un temperamento nel processo tributario per la sua natura essenzialmente documentale? La Corte ha poi nuovamente sposato la tesi più permissiva con una serie di pronunce rese negli anni 2002, 2003 e 2004[7] che univocamente militano nel senso di ritenere inapplicabile alle produzioni documentali il divieto recato dal pluricitato terzo comma dell?art. 345, inframmezzate però dalla sentenza n. 2027 dell?11 febbraio 2003, con cui la Corte ha, per contro, ribadito che, ai sensi dell?art. 58, comma 2, è consentito alle parti produrre in appello nuovi documenti, ancorché l?interessato non provi l?impossibilità di produrli in prima istanza per causa a lui non imputabile, e ciò in quanto l?art. 58 non lo richiede espressamente, a differenza di quanto, nel rito civile, impone l?art. 345 c.p.c., con ciò prendendo implicitamente posizione, ancora una volta, per la tesi più restrittiva e dalla decisione n. 3310 del 19 febbraio 2004 che ha censurato la produzione documentale in grado di appello laddove la mancata produzione in primo grado sia ascrivibile alla parte. Al fine di dirimere il contrasto interpretativo insorto in seno alla Corte, si è reso necessario investire della questione le Sezioni Unite il cui intervento è stato sollecitato al Primo Presidente, tra le altre, anche dalla Sezione tributaria con l?ordinanza n. 4376 del 10 maggio 2004. Il caso che ha originato l?ordinanza in questione vedeva contrapposte dinanzi alla Corte le ragioni di una società che aveva convenuto in giudizio l?Amministrazione finanziaria dinanzi al Tribunale di Genova e successivamente alla Corte di Appello della stessa città per sentirla condannare al rimborso delle somme versate, per gli anni 1989-1992, a titolo di tassa di concessione governativa per l’iscrizione nel registro delle imprese, successivamente dichiarata illegittima dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee. Il Tribunale adito negava il diritto al rimborso per i versamenti relativi agli anni 1991, 1992 e 1990, con riferimento ai quali nessuna richiesta di rimborso era stata proposta nel termine di decadenza triennale ed accoglieva la domanda relativa al 1989 perché l?istanza di rimborso era stata tempestivamente proposta. La società attrice impugnava la sentenza chiedendo che fosse dichiarato spettante anche il rimborso della tassa versata per l?anno 1992 e, a tal fine, produceva la documentazione attestante la tempestività dell?istanza di rimborso. L’Amministrazione finanziaria, ritualmente costituita, denunciava la tardività della produzione di controparte che la Corte di Appello riconosceva sussistere. La questione veniva, come detto, sottoposta al Primo Presidente per la valutazione circa l?opportunità di devolvere alle Sezioni Unite il contrasto in atto circa la questione se il divieto di proporre nuovi mezzi di prova in appello coinvolga soltanto le prove cosiddette costituende e non anche quelle cosiddette precostituite, come i documenti. Il contrasto esistente tra le sezioni civili e all?interno della sezione lavoro è stato finalmente risolto dalle sezioni unite civili della Corte di Cassazione con le sentenze nn. 8202 e 8203, depositate il 20 aprile 2005. Per l?autorevole consesso giurisdizionale, nell’ambito del processo civile anche i documenti e non solo le prove costituende sottostanno al divieto di produzione in appello di ?nuovi mezzi di prova?, che resta ammissibile solo e soltanto se la mancata produzione in primo grado non sia imputabile alla parte che intenda avvalersene, ovvero se il giudice ritiene di superare l?intervenuta preclusione perchè la produzione di alcuni documenti gli appare ?indispensabile? ai fini della decisione (su istanza di parte, nel processo ordinario; anche d?ufficio, nel processo del lavoro). 4. Il regime delle prove nell?appello tributario Prima della riforma introdotta ad opera del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, entrata in vigore il 1 aprile 1998, il processo tributario era regolato dal DPR 26 ottobre 1972, n. 636, che, dopo aver perentoriamente vietato all?art. 35, comma 4, l?ammissibilità del giuramento e della prova per testimoni, con previsione del tutto analoga a quella in seguito riportata nell?art. 7 del D.Lgs. 546/92, si occupava dell?acquisizione di nuove prove in appello, con il successivo art. 36, soltanto con riferimento al giudizio incardinato in Commissione tributaria centrale, nel quale potevano far ingresso nuovi documenti, attinenti ai motivi di gravame, purchè posti a corredo del ricorso, del ricorso incidentale ovvero delle controdeduzioni prodotte dall?appellato. Ciò legittimava la dottrina maggioritaria a ritenere sempre ammissibile la produzione di nuove prove in sede di appello, confortata sul punto anche dal significativo tenore dell?art. 79 del D.Lgs. 546/92 il quale, con l?evidente intento di evitare sopravvenute ipotesi di inammissibilità a carico delle prove nuove introdotte in appello dei giudizi già instaurati con il vecchio rito, prevede che ?Le disposizioni di cui agli articoli 57, comma 2, e 58, comma 1, non si applicano ai giudizi già pendenti in grado d?appello davanti alla commissione tributaria di secondo grado e a quelli iniziati davanti alla commissione tributaria regionale, se il primo grado si è svolto sotto la disciplina della legge anteriore?. L?art. 57, è opportuno rammentarlo, vieta la proposizione in grado d?appello di domande nuove, dovendosi intendere, con tale accezione, tutte le domande che, non dedotte nel grado precedente, condurrebbero ad un mutamento dell?oggetto e finirebbero per ampliare illegittimamente il thema decidendum[8]; per gli stessi motivi la norma osteggia la proposizione di nuove eccezioni, cioè di nuovi mezzi di cui una parte si avvale per contrastare le domande dell?antagonista, fatte salve le eccezioni rilevabili anche d?ufficio. L?art. 58 prevede invece al primo comma il divieto di nuove prove in appello ma, al secondo comma, lascia facoltà alle parti processuali di produrre nuovi documenti. Se dunque è indubbia la volontà del legislatore di modellare il giudizio tributario di appello sulla forma c.d. ad istruttoria chiusa propria del processo civile, è altrettanto vero che, per alcuni versi, i due riti si discostano in misura talora significativa. Se infatti nel processo civile l?ammissibilità di nuovi mezzi di prova è subordinata alla ritenuta indispensabilità degli stessi ai fini della decisione, nel contenzioso fiscale è sufficiente che il giudice di appello ritenga le nuove prove semplicemente necessarie per raggiungere una decisione perché queste facciano valido ingresso in causa. Ora chi scrive ritiene, pur consapevole della contraria posizione sul punto di qualificata dottrina[9], che il concetto di indispensabilità cui far riferimento la norma processualcivilistica abbia un effetto preclusivo all?acquisizione di nuove prove certamente più ampio di quello di necessarietà cui deve attenersi il giudice tributario; il primo presuppone infatti l?impossibilità di provare il fatto costitutivo del diritto se non attraverso l?acquisizione del mezzo di prova[10]. In altri termini indispensabilità non si identifica con mera idoneità a provare i fatti di causa ma implica l?oggettiva impossibilità, per la parte interessata, di fornire la prova con altri mezzi. E? tuttavia evidente che necessità dell?acquisizione del mezzo probatorio ai fini della decisione non significa e non può significare, pena lo svilimento della natura di revisio prioris instantiae pacificamente riconosciuta al giudizio di gravame, libertà indiscriminata del giudice nell?assunzione di nuove prove, mentre resta disponibile senza limiti, in forza del secondo comma dell?art. 58, l?acquisizione di nuovi documenti. Si tratta, come appare palese, di un?eccezione al divieto contenuto nel comma precedente che, in ragione della peculiare natura del processo tributario, ne attenua fortemente la portata; nel contenzioso tributario, infatti, il divieto della prova testimoniale, contenuto nell?art. 7 del D.Lgs. n. 546/92 ed al quale si è già fatto cenno in precedenza, rende quella documentale la prova regina tanto da far dire a più d?uno che la possibilità di produrre nuovi documenti in appello stride con il divieto di nuove prove e finisce per depotenziarlo e renderlo simile ad un simulacro. [1] L?atto pubblico non fa invece prova con riguardo alla veridicità delle dichiarazioni in esso contenute né della loro corrispondenza all?effettiva volontà delle parti. [2] A mente dell?art. 215 del c.p.c. la scrittura privata prodotta in giudizio si ha per riconosciuta se la parte, alla quale la scrittura è attribuita o contro la quale è prodotta, è contumace ovvero se la parte comparsa non la disconosce o non dichiara di non conoscerla nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla produzione. [3] G. Giontelli, in Rassegna di giurisprudenza del c.p.c. (anni 1991-1995), Libro II, Tomo II, Milano, pag. 852, ritiene che proprio il divieto dei nova renda l?art. 345 la norma ?forte? della riforma del processo civile. [4] A. Proto Pisani, Appunti sull?appello civile, in Foro it., 1994, II, pag. 200 [5] Art. 437 c.p.c. (Udienza di discussione) Nell’udienza il giudice incaricato fa la relazione orale della causa. Il collegio, sentiti i difensori delle parti, pronuncia sentenza dando lettura del dispositivo nella stessa udienza. Non sono ammesse nuove domande ed eccezioni. Non sono ammessi nuovi mezzi di prova, tranne il giuramento estimatorio, salvo che il collegio, anche d’ufficio, li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa. È salva la facoltà delle parti di deferire il giuramento decisorio in qualsiasi momento della causa. Qualora ammetta le nuove prove, il collegio fissa, entro venti giorni, l’udienza nella quale esse debbono essere assunte e deve essere pronunciata la sentenza. In tal caso il collegio con la stessa ordinanza può adottare i provvedimenti di cui all’articolo 423. Sono applicabili le disposizioni di cui ai commi secondo e terzo dell’articolo 429. [6] Peraltro circa la corretta interpretazione dell?art. 437 è da registrare la pronuncia n. 9199 del 6 giugno 1990, resa a sezioni unite dalla Corte di Cassazione, in base alla quale la preclusione ivi contenuta si riferisce soltanto alle prove costituende e non riguarda le prove costituite, come la produzione di documenti, la cui acquisizione non contrasta con le esigenze di concentrazione e immediatezza del processo. [7] Cfr. Cass.16 aprile 2002 n.5463; idem.13 settembre 2002 n.13.424; id..8 gennaio 2003 n.60; id..5 maggio 2003 n.6756; id. 2 aprile 2004, n. 6528 [8] La Circolare 23 aprile 1996, n. 98, correttamente precisa che, ?Per verificare quando si è in presenza di una domanda nuova occorre far riferimento agli elementi costitutivi di essa, vale a dire ai soggetti, al petitum ed alla causa petendi? [9] E? infatti di contrario avviso A. Buscema, ?Il regime processuale delle nuove prove e dei nuovi documenti in appello alla luce di recenti pronunce del giudice di legittimità?, in ?il fisco? n. 16 del 28 aprile 2003, pag. 1-2481, per il quale la necessità o indispensabilità della prova significa infungibilità rispetto ad altri mezzi probatori così che la limitazione introdotta nel rito tributario in tema di necessità di nuove prove in appello non è più lieve di quella contemplata nel codice di rito civile dagli articoli 345 e 437 in tema di indispensabilità. [10] Va tuttavia rilevato che a tale rigida formulazione del concetto di indispensabilità fa da contraltare la giurisprudenza della Corte di Cassazione la quale prima ha avuto modo di dichiarare non censurabile in sede di legittimità l?esercizio, ovvero il mancato esercizio, di tale potere-dovere del giudice a condizione che sia stato adeguatamente motivato e poi, addirittura, che l?omessa motivazione a sostegno del diniego opposto all?acquisizione di nuovi mezzi di prova si configura come dichiarazione, ancorché implicita, di non indispensabilità degli stessi. Insomma la discrezionalità che verosimilmente il legislatore voleva cacciare dalla porta è stata fatta rientrare dalla finestra.
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